di lello sodano
In passato ho pubblicato un ricordo sui ramai anastasiani, ma essendo a digiuno del sistema di lavorazione del rame e dei manufatti mi sono dovuto astenere dal farlo, sperando che qualcuno potesse descrivere il metodo di lavorazione di questo prodotto che ha fatto conoscere Sant’Anastasia in buona parte d’Italia.
Incontrai tempo fa Natale Porritiello, che purtroppo è scomparso, e non so se era ancora l’unico che si sia dedicato a tale attività. Visitai la sua fabbrica e mi fece vedere il sistema di lavorazione attuale, che per molti versi è ancora simile a quello antico. Nei progetti di Natale vi era quello di allestire un “museo del rame” che avrebbe trovato collocazione nei suoi ampi locali in via Pomigliano. Un progetto che dovrebbe vedere la partecipazione dei figli di tanti maestri ramai ormai scomparsi da tempo, e nel contempo mi consegnò degli appunti di memoria di uno dei pochi superstiti, Giuseppe Manfellotto, mio amico e del quale mi onoro della sua amicizia, recentemente scomparso alla veneranda età i 98 anni, che descrive la lavorazione del rame e la vita, abbastanza grama, del ramaio.
Voglio iniziare da una frase bellissima che don Peppino Manfellotto scrive nei suoi ricordi: “Allora i rumori non si sentivano, ma si avvertiva la fame; oggi si sentono i rumori perché non si ha più fame!” Ed il riferimento è abbastanza allusivo per coloro ai quali oggi darebbe fastidio il rumore provocato dalla lavorazione dei pochi ramai ancora in circolazione.
“In quasi tutte le famiglie anastasiane – ricorda don Peppino – si lavorava il rame; si lavorava anche l’ottone, bracieri con cupola (campanella), rintagliata con bulini sagomati in varie forme e con bei disegni. Nel 1936 vi fu la guerra in Africa, per la conquista delle colonie, io avevo 9 anni, e furono chiamati alle armi tanti giovani artigiani “rammari”; nel nostro paese restarono solo quelli più anziani che già potevano definirsi maestri ramai.
Poi venne la seconda guerra mondiale ed altri uomini furono chiamati a difendere la patria, ed ancora una volta a Sant’Anastasia rimasero solo gli anziani e ragazzi che continuarono il loro lavoro. Ma la materia prima a disposizione era pochissima in quanto il Governo aveva requisito il rame; tante famiglie dovettero consegnarlo assieme all’oro e argento, ed il rame venne risarcito per poche lire al kg. Tanti anastasiani rimasero senza lavoro ed in tante case fu miseria, ma la solerzia e la laboriosità fecero sì che si dedicassero ad altri mestieri. Mancando il rame venne a mancare la maggior risorsa dell’economia anastasiana.
Si iniziarono a realizzare utensili da cucina in ferro saldato con fiamma ossidrica, e questo nuovo lavoro fu iniziato da mio padre Raffaele, assieme a 10 operai che ancora erano rimasti con lui. Il saldatore era un giovane napoletano, Raffaele Vacca, e fu da lui che appresi il metodo della saldatura del ferro e dell’alluminio. Per quest’ultimo materiale il metallo di apporto coibentato con disossidante sprigionava esalazioni nocive che noi, purtroppo, aspiravamo non conoscendo il male che esso ci procurava.
In seguito altre botteghe organizzarono lo stesso lavoro con un loro saldatore; gli utensili in ferro venivano lavorati dentro e fuori in vasche piene di stagno. Finita la guerra non tutti quelli che erano partiti fecero, purtroppo, ritorno a casa; molti di loro rientrarono mutilati e denutriti e con essi, dopo poco, anche il prezioso metallo: il rame!
Per le strade, vicoli e vicoletti di Sant’Anastasia finalmente si risentiva il dolce suono dei martelli; il lavoro iniziava all’alba e si smetteva al tramonto. Si costruivano circa 20 modelli di utensili in rame, il martellio era sincronizzato e la gente contenta nell’ascoltarne la melodia che apportava finalmente benessere. Ogni utensile passava per il fuoco tre o quattro volte per essere rinverdito dai colpi di martello; nella lavorazione alle estremità dell’utensile si formavano delle disparità che venivano regolate con apposite cesoie, i ritagli venivano raccolti, mentre i pezzetti più piccoli rimanevano a terra assieme a quelli dell’ottone che poi i ragazzi provvedevano a raccoglie e vendere per pochi spiccioli al rigattiere.
Terminata la prima fase di lavorazione l’utensile veniva pulito (“sciriato”) con acido di vetriolo diluito con acqua, sabbia (“rena”) ed un’erba selvatica che chiamavamo “evera ‘e fetiente”. L’utensile veniva martellato e lucidato a specchio e agli stessi venivano applicati manici di rame fatti da mastro Giovanni Travino, soprannominato “Giuvanne micione ‘e ncopp ‘a cappella ‘e casa Castiello”. La sabbia veniva raccolta dall’alveo di Pollena e le erbe dalle siepi lungo le strade o sentieri di campagna. Dopo la “sciriatura” l’utensile veniva lucidato con un attrezzo in acciaio a maglio chiamato giaco, ma noi lo chiamavamo ‘o giacco.
La lavorazione del rame richiede moltissima acqua, e dove lavoravano 5 o 6 operai ne occorreva circa 2mila litri, non poca per la verità; per chi possedeva una cisterna il problema era risolto, altrimenti bisognava fornirsi presso le fontanelle pubbliche sparse un po’ dovunque sul territorio anastasiano, con non poca fatica nel trasporto dei contenitori e dei secchi, ed a questo compito erano preposti i ragazzi. Il vero disagio era per coloro che avevano le botteghe molto lontane dalle fontane pubbliche.
L’acqua era preparata il giorno precedente e durante l’inverno al mattino successivo la trovavamo gelata e si provvedeva a rompere lo strato di ghiaccio a colpi di martello. Dopo la strofinatura l’acqua veniva buttata trasportando con sé anche piccoli pezzetti di metallo che, come ricordato in precedenza, venivano raccolti dai ragazzi per venderli e comprare un po’ di pane. Era la miseria più nera. Oggi molti non sono soddisfatti del benessere attuale!
Il lavoro, purtroppo, non era sufficiente per tutti ed alcuni si accordavano per lavorare la mezza giornata, ci aiutavamo tutti e ci rispettavamo nella nostra indigenza. Molti anastasiani durante la guerra lavoravano nei cantieri metallurgici di Castellammare di Stabia, e poiché il sabato si lavorava mezza giornata, “sabato fascista”, provvedevano ad accrescere il loro salario lavorando la mezza giornata di sabato e tutta la notte presso le botteghe di ramai. In tante botteghe si lavorava la notte, e la gente dormiva tranquilla poiché sapeva che quel martellare significava pane e benessere.
Si lavorava il rame forgiato tirato sotto i magli; si chiamava forgiato poiché fuso nelle forge con carbone dolce e colato in varie dimensioni, non fuso nei crogioli. Durante la lavorazione i colpi di martelli lo indurivano e quindi veniva rinverdito sul fuoco (rummato con sale ammonico e urine), in questa fase si sprigionavano esalazioni puzzolenti, ma si lavorava.
Il venerdì ed il sabato erano dedicati alla stagnatura ed alla “sciriatura”; per l’asciugatura provvedevano le donne usando dei panni e segatura depositata in casse di legno. In primavera ed estate gli utensili si ponevano al sole ad asciugare ed i raggi del sole riflessi sul rame rendevano le giornate più belle, era una festa!
Tutti quei ragazzi che durante la guerra non smisero di lavorare il rame al posto di coloro che erano partiti diventarono dei veri artisti ed hanno prodotto dei capolavori che ancora oggi le loro famiglie custodiscono gelosamente. Molti ramai non ebbero vita lunga, la media era di circa 60 anni, e chi come me è riuscito a superarla vive di acciacchi cronici dovuti al mestiere. Tutto questo fa parte dei ricordi della infanzia e dell’adolescenza di Peppino, il quale ci tiene a precisare di non aver mai letto un trattato sulla lavorazione del rame, ma spera che in tanti abbiano capito.
Un ultimo ricordo è riservato a ciò che dicevano le nostre mamme: “’O capretto che patane ‘o furno, rinto ‘o ruoto ‘e ramme, è n’ atu sapore!” Non credo ci sia bisogno di traduzione.” Un vero e piccolo trattato.